Con una recente sentenza, la Corte d’Appello di Milano (sentenza n. 2759/2017), accogliendo la domanda proposta dalla Banca, e riformando integralmente la sentenza di primo grado, ha dichiarato la legittimità di un’iscrizione ipotecaria sulla quota di proprietà di alcuni beni immobili conferiti in fondo patrimoniale.
La predetta ipoteca era stata iscritta in forza di un decreto ingiuntivo emesso nei confronti dell’appellante (uno dei coniugi) che era fideiussore di una società a responsabilità limitata.
La sentenza della Corte distrettuale è interessante non solo per il risultato cui perviene ma anche per la puntuale ricostruzione, ai fini del proprio iter argomentativo, dei diversi orientamenti giurisprudenziali in materia.
La questione, come è noto, muove dalla previsione di cui all’art. 170 cc. a mente del quale “L’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia” e dalla lettura estensiva che di questa norma dà la giurisprudenza prevalente, estendendone le previsioni, non solo agli atti esecutivi in senso stretto, ma anche all’iscrizione di ipoteca in quanto istituto prodromico all’esecuzione stessa.
In presenza di determinato requisiti, infatti, il conferimento di alcuni beni in un fondo patrimoniale, sortisce un effetto parzialmente segregativo dei beni stessi, giustificato dalla loro destinazione al soddisfacimento dei bisogni della famiglia.
Tali presupposti possono essere enucleati come segue:
– Presupposti formali, attengono alla regolarità formale della costituzione e della pubblicità del fondo patrimoniale;
– Presupposti soggettivi, attengono all’estraneità dei debiti alle esigenze della famiglia;
– Presupposti soggettivi, riguardano la consapevolezza, in capo al creditore, già nel momento genetico dell’obbligazione, dell’estraneità dei debiti rispetto alle esigenze famigliari.
L’onere di provare tutti i predetti presupposti grava, per giurisprudenza consolidata, sul debitore e ciò per un triplica ordine di considerazioni.
In primo luogo in virtù del principio processuale di prossimità e disponibilità della prova, potendo il debitore provare più facilmente l’estraneità del debito rispetto ai bisogni della famiglia.
In secondo luogo, e simmetricamente a quanto visto al punto che precede, per l’oggettiva difficoltà/impossibilitò per il creditore di provare un fatto negativo quale la non conoscenza della predetta estraneità del debito.
Infine, perché in ossequio al generale canone di cui all’art. 2697 cc grava sul debitore provare i fatti impeditivi della pretesa creditoria e il conferimento di un bene in un fondo patrimoniale, quale regime derogatorio alla previsione di cui all’art. 2740 cc. che comporta l’assoggettabilità di tutto il patrimonio del debitore alle pretese esecutive del creditore, si pone quale eccezione in senso stretto e quale fatto impeditivo dell’esecuzione.
All’interno di questa cornice normativa e giurisprudenziale, pertanto, il Giudice di primo grado, aveva deciso per l’illegittimità dell’iscrizione ipotecaria effettuata su di beni conferiti nel fondo patrimoniale e ciò, soprattutto, in ossequio ad un orientamento giurisprudenziale più restrittivo (e minoritario) espresso da Cass. 2006 n. 12998 a mente del quale: “l’aggredibilità dei beni conferiti nel fondo (è ammissibile) soltanto qualora la fonte e la ragione del rapporto obbligatorio abbiano inerenza diretta ed immediata con i bisogni della famiglia”.
Il Tribunale, poi, a supporto della propria decisione poneva l’ulteriore circostanza che il finanziamento garantito da fideiussione fosse stato erogato allo scopo di riequilibrare uno scoperto di conto corrente facente capo una società di capitali.
In altre parole il debito, secondo la ricostruzione effettuata dal Giudice di primo grado, era stato contratto per esigenze proprie di un soggetto terzo e distinto.
La Corte d’Appello, ad integrale riforma della sentenza di primo grado ha deciso, invece, per la legittimità dell’iscrizione ipotecaria e, implicitamente, per l’aggredibilità in executivis dei beni conferiti in fondo patrimoniale.
Per la Corte d’Appello, infatti, la giurisprudenza è assolutamente prevalente nell’interpretare i “bisogni della famiglia” di cui all’art. 170 cc. in senso non restrittivo ma amplio.
Il criterio identificativo dei debiti per il soddisfacimento dei quali è possibile l’azione esecutiva sui beni conferiti in un fondo patrimoniale va, pertanto, ricercato “non già nella natura dell’obbligazione, ma nella relazione fra il fatto generatore di essa e i bisogni della famiglia, nei quali vanno anche ricomprese quelle esigenze volte al pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della famiglia, nonché al potenziamento della capacità lavorativa di tutti i suoi componenti, restando escluse solo le esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da intenti meramente speculativi”.
Tale orientamento che prende le mosse da Cass. 134/1984 è da considerarsi prevalente, sebbene l’orientamento più restrittivo fatto proprio dal Tribunale non sia frutto di un arresto isolato.
Più complessa e discussa, invece, l’applicabilità di tali principi al caso di debiti contratti da un coniuge (o da entrambi) nell’esercizio della propria attività professionale, soprattutto quando questa è esercitata in forma collettiva.
Sul punto la giurisprudenza di merito registra due orientamenti contrastanti.
Da un lato, secondo un primo orientamento, opera una presunzione semplice (che quindi non resiste alla prova contraria) di riferibilità dei redditi d’impresa percepiti dai coniugi al soddisfacimento dei bisogni della famiglia.
Tale orientamento prende le mosse dalla lettera dell’art. 143 cc. a mente del quale “Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”.
Secondo diverso ed opposto orientamento la presunzione semplice opererebbe in senso contrario per cui le obbligazioni contratte dai coniugi nell’esercizio della professione (a fortiori se esercitata in forma collettiva) andrebbero considerate estranee ai bisogni della famiglia.
La giurisprudenza di legittimità, invece, non attribuisce particolare valore euristico alla circostanza che le obbligazioni siano contratte nell’esercizio dell’attività professionale finendo questo per essere un fattore neutro perché, se è vero che, di norma, anche i redditi d’impresa sono destinati al mantenimento della famiglia (con tutte le conseguenze che ne discendono ex art. 170 cc) ciò non avviene necessariamente, onerando il Giudice di una scrupolosa analisi del caso concreto, teso ad accertare, volta per volta, se, nella fattispecie sottoposta al suo giudicato, l’obbligazione (in qualunque ambito sorta) sia stata contratta per il soddisfacimento di un proprio bisogno personale oppure famigliare.
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